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Altrove

  • Writer: T. Tivillus
    T. Tivillus
  • Jan 22
  • 9 min read

Updated: Jan 23

T.Tivillus | Capitolo I: Infanzia



Per voi forse è impossibile, ma non dovreste avere pregiudizi, perché sto iniziando una storia e voi dovreste essermi amici.

Certo, dovrei ricordare qualcosa, ma a volte le cose capitano senza poterle controllare. Mi sono svegliata in questo posto. Sono riposata, è come avessi dormito per molto tempo e d’improvviso la sveglia fosse suonata. Qui non c’è nessuno a cui chiedere; potrei urlare per farmi sentire, ma temo l’eco della mia voce. So soltanto che non ho idea di dove io sia finita. Mi guardo attorno per provare a riconoscere qualche dettaglio, ma è uno sforzo che non dà risposte. Mi avrà portata qualcuno senza che me ne accorgessi, come capitava a volte da bambini di addormentarsi in un posto per svegliarsi in un altro.


Vi spiego. C’è un corridoio lunghissimo davanti a me, tanto da non riuscire a vederne la fine, come non posso vedere la fine del mare e del cielo. A proposito di cielo, è una casa senza soffitto, da qui il cielo si vede sempre. Sembra vicinissimo. Vedo le nuvole da qui, vedo il sole spuntare in lontananza. Non sono sicura che questa io possa chiamarla davvero casa. Non chiedetemi se è un sogno. So che lo state pensando, vi sento, ma io non so darvi risposta. Insieme a me non ho niente, né una valigia né la mia borsa. Devo averle lasciate fuori da questo posto, allora mi volto per cercare una porta d’ingresso che non c’è. L’unico modo per provare a entrare o uscire è arrampicarsi su queste pareti altissime, ma io non ho abbastanza forza.

Mia nonna mi chiama, la sua voce proviene da una di queste stanze. «Aliccc(e), Aliccc(e)!» Nel pronunciarlo la sua voce si ferma sulla lettera c, la ricalca come se quello fosse il confine del mio nome. Cammino veloce per poterla raggiungere, ma non so dove andare. Inseguo il mio nome storpio, e appena lo sento più vicino a me, rallento il passo. Mi abbasso per spiare dalla serratura: in una vedo la mia maestra di danza, Carla, in quella di fianco, invece, c’è la mia migliore amica Marina. Ci sono anche loro, persone di cui oggi non so niente. «Aliccc(e), Aliccc(e)!» La trovo, è qui.


Nonna Marianna estrae l’ago da un cuscinetto rosso dai contorni ricamati. Il cuore è trafitto da una ventina di aghi tanto appuntiti, temo possa sanguinare da un momento all’altro. Ci sono io all’età di otto anni seduta davanti a mia madre, è attenta come una marescialla a un interrogatorio: interroga una bambina accusata di aver detto una parolaccia irripetibile, irripetibile  fino al punto di averla dimenticata.

Seduta sul copriletto in ciniglia, nonna Marianna si avvicina alle mie labbra; mi illudo che da un momento all’altro l’ago diventi il rossetto di mia madre.

«Caccia fuori la lingua!» impone la marescialla alle spalle di mia nonna. Contraggo la mandibola e serro le labbra.

L’ago passa dalle dita corte e secche di mia nonna alle sue labbra rosse; dalla mia prospettiva, il rossetto è sangue e mia nonna è una stronza. Vorrei arrivare all’ago, strapparglielo di bocca e tirarlo a segno sulla sua fronte, lì dove abita un neo grande e tondo che da sempre mi sembra un terzo occhio. Avrei voluto accecarla.


Sento il sangue arrivare alla testa, denso e rumoroso, mi attraversa. Vorrei salvarmi, prendere per mano quella bambina seduta sul letto e portarla fuori da qui. Nessuno, però, mi parla né mi rivolge lo sguardo. Nemmeno quella bambina mi vede, vorrei almeno avvisarla, dirle che quello che spera diventi un rossetto resterà ago. Faccio l’unica cosa che posso, le siedo accanto e le stringo la mano. Anche se non servirà a lei, servirà a me per ricordarmi di esistere.

Ci tengo e ci tenevo alla mia lingua. Potrebbero tagliarmi una mano o rasarmi la testa a zero. Potrebbero togliermi la cena per una settimana. Ma la mia lingua non si tocca. Lei è tutto ciò che voglio essere. Quando mi lavavo i denti da bambina, cacciavo la lingua fuori e la spazzolavo per bene, come se lavarla rendesse le parole che dicevo ancora più vere, ancora più nuove. La linguta oggi ha da raccontarci qualcosa? La linguta ha altro da dire? Presi consapevolezza dei movimenti della mia lingua quando a casa leggevo ad alta voce i compiti assegnati. Scandivo le parole lente per riservare la mia attenzione al moto della lingua che disegnava una coreografia a rallentatore nella mia bocca. Leggi a voce alta il testo e sottolinea i predicati verbali. Scrivi dieci frasi utilizzando il pronome relativo. Diventavano delle poesie dal significato oscuro. A volte, le ripetevo davanti allo specchio del bagno. La toccavo con la punta delle dita: porosa, bagnaticcia ed estremamente rosea, mi ricordava la spugna appesa alla vasca. Lei però stava attaccata a me, avevo provato a tirarla come la catenella dello sciacquone, ma lei mi apparteneva e io appartenevo a lei.

La mandibola contratta mi ha provocato il mal di testa. Più stringo e più ho male. Più ho male e più nascondo la lingua. Soffro di nuovo, ma questa volta è un patimento diverso, consapevole di ciò che sta accadendo. Mia nonna si avvicina ancora più a me. Mi guarda dritta negli occhi e mi dice qualcosa di incomprensibile che suona come una formula magica. Mia madre mi tiene la testa ferma per paura che possa ribellarmi all’ago. Al contrario di quanto credano loro, io non mi vergognerò mai di ciò che la mia lingua può pronunciare sulla signora Zucchetti o su qualsiasi altra cosa. Accetto di essere punita, ma a modo mio. A braccia conserte e a labbra strette. Nonna Marianna affila l’ago in bocca e senza indugiare inizia a pungermi il contorno delle labbra. Dal labbro superiore a quello inferiore, finché io, esausta, caccio la lingua fuori. Mi infilzano l’ago dritto sulla punta della lingua. Non provavo pena per me stessa, se ve lo state chiedendo, non mi compativo allora e non mi compatisco ora. Mi sento bruciare ovunque, forse ho la febbre. Inizio a sudare e in un attimo la fronte si fa lucida e bianca. Quando mi tolsero l’ago, pensai che ero diversa da loro, perché avevo appena scoperto il potere delle parole. Avevo appena scoperto quanto le mie parole potessero essere importanti per gli altri: avrei potuto ferire, difendermi, inventare, raccontare. Tutto attraverso la mia lingua. La linguta, in fondo, era un soprannome che non avrei mai abbandonato, perché avevo scoperto che preferivo essere linguta che qualsiasi altra cosa.


Chiudo la porta alle mie spalle. Sento ancora la febbre e il sudore correre lungo la schiena. Tiro fuori la lingua, me la tocco con la punta delle dita e poi con tutto il palmo. Lei esiste, io esisto. Tra poco pioverà, ma in lontananza vedo ancora il sole e intanto cammino senza sapere dove stia andando. Si susseguono porte tutte uguali: mi chiedo quante siano, e mi volto per capire quanto sono lontana dall’inizio di questo dedalo. Sono sempre più lontana da tutto, dall’inizio e dalla fine. Mi siedo a terra, il pavimento è freddo, mi ricorda il marmo delle lapidi. Ma io non sono morta. Scaccio il pensiero e la mia pancia brontola per la fame: una morta non può avere fame. Resto in quella posizione per un tempo indefinito. Non so da quanto io sia qui. Un paio di ore? Forse di più. Chiudo gli occhi soltanto un attimo.


Le urla mi svegliano: provengono dalla stanza a destra. Fuori dalla porta c’è una valigia, c’era anche prima? Forse è la mia. Mi alzo improvvisamente. Non è la mia, ma la riconosco perché la usavamo per le vacanze estive quando ero bambina. Mamma la riempiva di vestiti e teli mare, quando a me sarebbe bastato il mio peluche preferito. La cerniera non scorreva mai bene, e papà diceva che l’avrebbe scaldata con un po’ di cera per aggiustarla ma alla fine se n’era andato senza averlo mai fatto.


Mio padre sta fumando. Guarda fuori dalla finestra, io so che sta aspettando noi. Mi avvicino a lui. La pioggia sta bagnando i vetri, e io penso senza motivo al fatto che mamma sarà scocciata di doverli ripulire per la seconda volta nella stessa settimana. 

«Papà, sono io!» gli tocco la spalla: «Papà!»

Mi rendo conto di non pronunciare ad alta voce quella parola da molto tempo. Allora inizio a dirlo all’impazzata, mi viene anche voglia di ballare nel dirlo, mi sento felice. «Papà, papà, papà!»

Quante volte sarei capace di ripeterlo. «Papà, papà, pa-pà!»

Lui si volta verso di me, dura un istante, ma per pochissimo ci guardiamo, senza che lui sappia che io sono lì e che non ho più dieci anni. Peggio di non poter vedere c’è soltanto non essere visti. Dico papà un’altra volta, ma lui è altrove, un altrove diverso anche da questo assurdo altrove in cui siamo insieme per la prima volta dopo quindici anni. Gli scende veloce una lacrima, poi un’altra ancora. I suoi occhi azzurri sono crepati, come un vaso rotto, vorrei poterne aggiustare i pezzi. Mi ero dimenticata di quanto fosse bello papà quando piangeva. Prende le sigarette sul tavolo e se ne va. Lo rincorro, ma mi rendo subito conto che i suoi passi sono almeno quattro volte più lunghi dei miei. So già di averlo perso per sempre.

«Dove vai, papà?» La valigia verde che ha in mano non mi è mai sembrata tanto grande come in questo momento. Avrei potuto infilarmici e andarmene via da qui insieme a lui. «Papà, dove vai?»

Non riesco ad abituarmici a questo silenzio. Non capisco come io non possa esistere. Anche se ho un nome, Alice, anche se ho una memoria e dei ricordi che dalle porte sbucano per venirmi a prendere. Deve essere una punizione. Qualcosa di positivo, però, c’è: papà conosce la via d’uscita, questo significa che basterà seguirlo per lasciare questo posto. Cammino veloce dietro di lui, ha il passo svelto e io sono stanca. Ha una dolcevita nera e un paio di jeans, la giacca di montone e un paio di stivali a punta. Riconosco tutte le cose che indossa, soprattutto gli stivali che rimanevano spesso nel corridoio di casa. Le sue scarpe mi facevano inciampare, a volte ne puliva i contorni con una spugna e li lasciava ad asciugare in veranda, così per qualche giorno non inciampavo. Poi quel giorno, insieme alla valigia dalla cerniera rotta, portò con sé anche i suoi stivali a punta. Non ci avevo mai pensato, ma da quel momento ho smesso di inciampare. Io e mamma rientrammo tardi, restammo a casa di nonna a fingere che fossimo lì per lei, ma stavamo scappando senza andarcene, al contrario di papà che se ne andò davvero.


Stiamo andando di fretta. Anche a me viene da piangere, ma non c’è tempo per le lacrime. D’improvviso una porta si spalanca: escono fuori una marea di giovanissime in scarpette rosa e body, i loro chignon sono perfetti e avvolti da una retina ricamata che riprende il colore delle scarpette. Parlano tra di loro, ridacchiano, e intanto cerco di non perdere di vista mio padre. Mi sbraccio e pesto le loro scarpette rosa, tiro anche qualche gomitata, ma le ballerine non sentono niente. Ѐ tutto inutile. Camminano e io sono in mezzo a loro. Una musica altissima inizia a suonare, le ballerine sono tutte in posizione. Riesco a vedere ancora la valigia in lontananza, forse ho il tempo per raggiungerlo, e inizio a correre, ne approfitto perché le ballerine qui si stanno preparando per iniziare. Sono ferme come statuine con il collo dritto e i piedi fermi. Ma è troppo tardi: fanno un passo e poi subito un altro, seguono il ritmo della musica come io vorrei seguire quello dei passi di mio padre, ma non c’è la stessa armonia. Riconosco la musica, l’ho sentita moltissime volte quando danzavo, ma non ne ricordo il compositore. Forse iniziava per C o per S. Sto scomparendo? Prima il corpo, poi la voce, adesso la memoria. Le ballerine mi coinvolgono, inizio a muovere le mani e le braccia senza sbavature di sincronia, lo faccio senza volerlo. Senza scegliere di danzare. Vengo travolta dai loro passi finché non inizio a seguirli, uno dietro l’altro. Stiamo danzando insieme, o almeno sono io a farlo con loro perché non possono vedermi. Perderò papà anche questa volta. La sua valigia è sparita, e mi rassegno al fatto che neanche adesso sono stata capace di tenerlo con me. Se solo mi avesse potuta vedere, sarebbe rimasto. È dolce crederci, perché non saprò mai se avrebbe scelto di restare.

Ho perso papà e intanto sto ballando. Non piango, ma ballo, ballo come un attimo fa avrei voluto fare dalla felicità di pronunciare quella parola: papà. Non so più chi sono, cosa sto facendo, penso soltanto che in queste stanze chiuse ci sono volti e oggetti che credevo fossero reali. Ma non c’è più niente di reale. Sto ballando per disperazione, per necessità, perché forse non so nemmeno più piangere. Qui è tutto diverso. Mi ripeto questa frase come se non fosse la realtà, perché voglio credere che non lo sia. Un altrove, vi dicevo poco fa, in cui si vorrebbe piangere ma non si può. In cui si vorrebbe rincorrere il proprio padre perduto ma non si può. In cui si vorrebbe soltanto cambiare le cose ma non si può. E chiedo a voi allora, che mi avete seguita fino a qui, a cosa dovrebbe servire un altrove in cui non si è liberi di reinventare. A cosa serve un altrove in cui si è prigionieri. Perché è questo che sono diventata.







Alice Semioli è nata a Torino nel 1999, si è laureata in Letterature comparate presso l'Ateneo di Torino e l'Université d'Aix-Marseille. Prosegue gli studi a Parigi e a Roma,  prima alla Sorbonne-Nouvelle e poi presso l'Accademia Molly Bloom. Da grande vuole essere una strega.

 
 
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