Blu bucherellato
- T. Tivillus
- Jan 22
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Updated: Jan 23
T.Tivillus | Capitolo I: Infanzia
La carta da parati era uno di quei pochi lussi per tutti i nostri condòmini, non per noi. Il bianco sporco regnava nell’appartamento della casa popolare che era stata data a mia madre, la muffa negli angoli del soffitto e il giallo sul muro sopra i termosifoni erano gli unici diversivi cromatici che, inseme all’armadio marrone, spezzavano l’anonimato delle nostre vite.
La mia infanzia è stata buia, la mia infanzia è il fantasma che mi perseguita ancora nei miei incubi.
Ho tanti ricordi, tutti uguali: uomini che entravano in casa, io che uscivo nel corridoio freddo, privo di piante e di qualsiasi cosa potesse in qualche modo distrarmi dalla domanda “Perché tutti questi uomini in casa mia, ma mai mio padre?”. Per passare il tempo scendevo le scale, uscivo sulla strada e guardavo le auto sfrecciare. Ogni tanto qualche signora del palazzo mi riconosceva, mi domandava cosa facessi lì fuori, e dopo la mia ingenua risposta - “La mamma ha detto che ha visite”- mi faceva entrare nel suo appartamento. Percepivo un calore strano tra le mura delle altre case, delle altre famiglie, percepivo un calore strano, una sensazione di nostalgia per quell’atmosfera mai presente in casa mia. Mi davano del tè, e qualche biscotto con marmellata o miele. Per lo più, erano signore del mio stesso piano. Avevano figli più grandi di me, che puntualmente non mi consideravano, né mi salutavano quando ci incontravamo per le scale. Le mamme degli altri mi facevano sperare che anche la mia un giorno sarebbe stata come loro: senza un occhio nero, priva dell’odore di vodka e senza le lacrime dopo ogni visita di quegli uomini. Mamma si prostituiva. Ma non era una prostituta. In cambio del suo corpo, avevamo del cibo. Un giorno comprò anche una televisione, cambiò le lenzuola e disse che sarebbe andata a cercare un lavoro presso la fabbrica di materassi, non tanto lontana da casa nostra. Sorrideva, era sobria, ma anche ubriaca di un entusiasmo mai apparso prima su quel giovanissimo volto. Aveva ventitré anni.
Se ne andò al mattino, dopo aver preparato delle crêpes sulle quali spalmare del latte condensato.
“Se mi prenderanno al lavoro, faremo sempre questa colazione, te lo prometto.”
La guardai dalla finestra camminare sulla strada, avvolta nel suo capotto nero, la stringeva come un’amante stringe una rosa donata da chi lei più desidera. Scomparì all'angolo della strada, ma avevo inquadrato quelle scarpe di stoffa blu bucherellate all’altezza degli alluci.
Quel giorno l’aspettai sdraiato sul letto che sapeva di buono, intento a guardare una televisione da poco acquistata.
Tornò a casa qualche ora dopo. Aveva pianto.
“Ti hanno preso?” le chiesi.
“No, mi faranno sapere, ma non mi prenderanno. Mi hanno detto che sanno cosa faccio per mantenermi”
“E che fai per mantenerti, mamma?” le domandai.
“Ah, piccolo mio. Io cerco di fare la brava mamma, come fanno tutte le altre mamme.”
Poi si svestì. La vidi nuda per la prima volta: piccoli seni, peluria sul suo seme, e fianchi morbidi. Aveva tanti lividi, all’epoca non comprendevo fossero conseguenze dei rapporti bruschi con gli uomini.
Le domandai: “Cosa sono quei segni viola?”
Lei ci pensò, mi prese in braccio e disse: “Niente piccolo mio… sono… sono i segni delle farfalle che mi hanno accompagnato fino al lavoro oggi. Quando si appoggiano, lasciano questi segni. Per riconoscermi un domani e ripoggiarsi su di me.”
Mamma non venne assunta, non la vidi mai più sobria. Tornò a prostituirsi, spesso senza farmi uscire dall’appartamento. Forse sperava che non le facessero del male, vedendomi. Ma io ero invisibile agli occhi di tutti quegli uomini, come lo era lei dopo aver concesso loro la sua carne. Io piangevo. Poi si ripuliva, si faceva una doccia e si coricava vicino a me. Canticchiava qualche canzone e poi diceva frasi dolci, come desideri per la notte.
“La carta da parati sarà il nostro prossimo acquisto, non è bene far vedere questa casa conciata così. Cosa ne pensi, piccolo Kola?”
Io la ignoravo, facevo finta di dormire. Lei piangeva un po’, ma poi mi abbracciava forte e crollava in profondi sogni, e quando ero certo che dormisse, aprivo gli occhi, le accarezzavo la faccia e le sussurravo parole dolci. Non mi sentiva, ma ero contento. Significava che non sentiva neanche il dolore delle farfalle, della nostra misera vita.

Nikolai Prestia (1990) è laureato in Giurisprudenza all'Università di Siena e vive a Roma. Per Marsilio, esordisce nel 2021 con Dasvidania (Premio Massarosa 2022). Nel 2024, sempre con Marsilio, pubblica La coscienza delle piante. Da grande vuole fare lo scrittore.