T.TIVILLUS | Capitolo 1: Infanzia
Avevo appena iniziato le elementari quando mi accorsi che crescere sarebbe stato noioso. Mia madre, dopo aver cercato di svegliarmi più volte, mi aveva vestito nel sonno. Sono sempre stato un tipo mattiniero, non ho mai avuto particolari problemi nell’abbandonare il letto quando era ora di alzarsi: anche il sabato e la domenica. Dopotutto, fare le ore piccole mi era vietato. Quel giorno, però, proprio non riuscivo a svegliarmi.
I vestiti erano già pronti accatastati su una sedia: il caldo d’agosto non aveva ancora abbandonato del tutto le città e le mura domestiche riservavano ancora quel tepore tipico di una mattina di fine estate. Il mio completo sarebbe stato un paio di jeans a pinocchietto dal lavaggio scuro, nei quali sarei potuto starci due volte, e un paio di occhiali tondi color cobalto inforcati sul naso, nuovi di zecca. Con la cartella Invicta, rossa e blu, di corsa a fare la foto di rito del primo giorno, davanti alla porta, con un sorriso tra l’assonnato e la voglia di nascondermi per sempre da quello che mi aspettava.
Togliete a un bambino i peluche, i pastelli, i puzzle, tutte le attività piacevoli dell’infanzia. Fatelo sedere su una sedia di legno. Il cambio è repentino, non c’è un inserimento graduale; un giorno ti svegli e sei costretto a stare per sei o sette ore a un vecchio banco scolorito e scribacchiato.
Il primo giorno di scuola non c’era nessuno dei bambini e delle bambine che avevo conosciuto; nessun ex compagno della scuola materna. Ero solo, seduto ai primi banchi, di fianco a un coetaneo dai capelli scuri a caschetto e dalla carnagione molto chiara. Era grassottello, dalle guance paffute e dalle dita corte e cicciotte. Sembrava essere lì di passaggio, con gli occhi perduti nel vuoto e le dita che giocherellavano con un fazzoletto col quale si era soffiato il naso poco prima.
L’appello fu celere, eravamo una ventina: i genitori vennero scortati all’uscita della classe. Ci venne richiesto di disegnare la nostra casa che, per qualche ragione, è sempre quadrata, per ogni bambino. Con mamma e papà stilizzati, orribili. Con qualche fiore e qualche uccello anatomicamente impossibilitato a vivere. Nei miei disegni, c’era questa tecnica improvvisata di collage, che di fianco alla rappresentazione della casa in montagna dei miei, appariva spesso una conchiglia attaccata con lo scotch.
Quei disegni orribili che, ancora oggi, mi inquietano: come possano dei genitori fingere apprezzamento dinanzi a cotanta predisposizione alla deformità, non lo capirò mai. Sono brutti, troppo astratti, con colori improbabili e accostamenti di elementi del tutto disuguali. Quei disegni che alcuni genitori attaccano sul frigorifero, fieri che i propri figli sappiano tenere in mano un pastello. I miei genitori non li hanno mai esposti, non si sono mai complimentati per come disegnassi. Anzi, erano i miei che sceglievano cosa dovessi disegnare: le principesse con le gonne erano tassativamente vietate.
Pensai Che ci faccio qui?, un pensiero che s’impossessò della mia mente, prese il controllo della mia voce: — Daniela, ma perché dobbiamo stare qui tutto il giorno? Posso tornare a casa?
Lei già sapeva che avrebbe dovuto rispondere in un modo incomprensibile per un bambino di sei anni: tant’è che si era preparata il discorsetto non solo per me, ma per tutta la sua nuova classe. Era elegantemente vestita, con la piega perfetta. Addosso, profumo di gelsomino e un sorriso a tratti ostentato. Aveva aspettato che i genitori uscissero per dar inizio alla sua concione.
— Nicholas, lo so, sarà difficile iniziare questo nuovo percorso. Ma è qui che si cresce per diventare adulti. La scuola e lo studio sono elementi necessari per poter diventare grandi. Proprio come me.
Incrociai lo sguardo del mio compagno di banco, che era rimasto nella stessa posizione di prima: disorientato, aveva pianto poco prima, quando la madre lo aveva salutato per uscire dalla classe. Si chiamava Luca. Avevo deciso che Luca mi piaceva. Mi piaceva perché era goffo e impacciato, al contrario di me, che sono sempre stato ipotizzato come sicuro ed elegante nei gesti. Mi piaceva Luca perché era timido, come me, insicuro al punto giusto.
La seconda parte della giornata la passai con il mio nuovo amico, braccio a braccio, disegnando di tutto: dalle nostre case banalmente quadrate, alle automobili banalmente rettangolari, ai complicatissimi Pokémon, che di sicuro i miei genitori avrebbero buttato una volta tornato a casa. A Luca piaceva il calcio, a me no. A me piaceva ballare, a lui no. Eravamo complementari e ad entrambi questa unione appena suggellata sembrava piacere molto.
In poco tempo, ci dichiarammo il nostro amore, definendoci migliori amici. Divenimmo presto inseparabili come i pappagalli. Sempre insieme, tutti potevano assistere alla nostra amicizia.
Niente più mi pesava, la scuola mi piaceva di più. Se c’era Luca al mio fianco, i giorni passavano, i mesi pure. Per strada camminavo leggero come nei sogni. Ero pieno di gioia. Luca era il mio migliore amico. Non ero stato solo io a dirlo, lui lo aveva ripetuto: sei il mio migliore amico. Potevo toccare la sua faccia, fargli il solletico, confidarmi con lui, strattonargli le braccia e baciarlo sulla testa.
Non volevo che nessuno desse la mano a Luca all’infuori di me; Luca era il mio amico, nessuno doveva infrangere il nostro spazio amicale. Aveva sempre le guance scottanti e rosse e, per questo, era la mia Heidi. Volevo a tutti i costi che sapesse che io l’avevo scelto per essere mio amico, volevo dimostrargli di essere abbastanza meritevole del suo amore.
Le differenze tra me e Luca, però, crescevano di pari passo con noi: i suoi genitori erano ricchi, i miei no. Mia mamma faceva le pulizie tutto il giorno, sua mamma non aveva bisogno di lavorare. Mio papà faceva il ferroviere, suo papà lavorava in un’azienda di nome Deloitte. Il papà di Luca votava Berlusconi e Luca diceva che tutti avrebbero dovuto votare Berlusconi e lo odiavo per questo, perché a mio papà Berlusconi non piaceva e, quindi, non piaceva nemmeno a me. Noi preferivamo Prodi. La mia famiglia era di sinistra, la sua famiglia era di destra. Luca mi canzonava sempre perché ero povero e mia mamma faceva le pulizie nelle case dei ricchi.
Durante l’intervallo, quello dopo aver consumato il pranzo in mensa, Luca preferiva calciare il pallone contro un muro piuttosto che stare con me. Ai giochi dei maschi preferivo quelli delle femmine. Adoravo vestire e animare bambole, creare storie, e detestavo il calcio… ai maschi questo non dava fastidio, anche se ogni tanto mi chiedevano perché non stessi con loro. Non ho mai saputo rispondere.
Mia mamma, che probabilmente aveva già avvertito il campanello d’allarme di aver partorito un figlio frocio, fece, da brava madre cattolica, un tentativo di correzione, sempre con il supporto di mio padre: mi iscrisse per l’anno intero della seconda elementare al corso di calcio del paese. Inutile dire che fu per me come un coltello piazzato in mezzo alle costole; provai, forse per la prima volta, una rabbia cieca mista a delusione e voglia di uccidermi, o meglio, di scomparire. Per me fu una tragedia. Luca non c’era e io piangevo tutte le volte che avevo gli allenamenti. Facevo sempre finta di stare male, di avere la nausea, e forse non mentivo del tutto, ma non ci credeva nessuno comunque. Ogni tanto lo facevo anche a metà degli allenamenti, così il coach chiamava i miei genitori e io tornavo a casa prima, sotto i loro occhi sconvolti dalla mia condotta. Se ci fosse stato Luca, sarebbe stato molto più semplice. Lui era grasso, mi dicevo, avrebbe giocato peggio di me.
Vivevo di Luca. Con lui le giornate procedevano ordinarie e leggere. Era passato più di un anno ed eravamo ancora amici, anche se iniziavo a chiedermi che cosa pensasse del fatto che giocassi con le femmine e con le bambole. Perché voleva essere mio amico? In più, ora, circolava in classe che io fossi effeminato, che fossi strano.
Avevo, oltretutto, scoperto il piacere della masturbazione e il fatto che mi concentrassi sui maschi per raggiungere l’orgasmo mi rendeva ancora più complicato il tentativo di comprendere se avessi o meno qualcosa che non andasse. Chiaramente la mia masturbazione infantile non era una sega: incrociavo le gambe, con i testicoli ben piazzati in mezzo; aumentavo e diminuivo la pressione tra le cosce, quella esercitata sui testicoli, e nel giro di dieci minuti sentivo che il pene pulsava ed era la sensazione più piacevole che avessi mai provato. Nel mentre, immaginavo i miei compagni di classe che mi facevano vedere i loro piselli: ne avevo già visti molti, in realtà. Ad esempio, quello di Fabio, lo tirò fuori durante l’intervallo dopo che gli avevo regalato uno di quei portachiavi di Winnie The Pooh travestito da scoiattolo. Avevo visto anche quello di Simone, utilizzando la scusa di paragonare le nostre differenze e lunghezze. Poi c’è stato Giuseppe, che tra tutti più mi affascinava, perché lui non aveva paura di nulla, sfoggiava il suo pene nonostante fossimo solo bambini.
In quel periodo, iniziai ad andare sovente a casa di Luca: passavo quasi più tempo con la sua famiglia che con la mia. In uno di quei giorni, dopo aver giocato all’Xbox come di prassi, a non so chi dei due venne l’idea di fare sesso, mimando gli atteggiamenti classici: dal bacio ai preliminari fino alla penetrazione che terminava con un orgasmo fittizio. Uno dei due fingeva di essere la donna della coppia, a turno. Inutile dire che fingevamo che l’uomo fosse virile, con un cazzo enorme, prepotente e in grado di prendere la propria donna in qualsiasi momento la volesse. Tra le varie sceneggiature create per l’occasione c’è stato il professore con l’alunna, il ladro con la signora benestante, l’idraulico e la donna di casa. Non ci era mimicamente passato per la testa che ognuno potesse mantenere la propria identità maschile e arrapata: motivo per non compresi mai del tutto le dinamiche di quegli incontri, che divennero l’abitudine quando passavo il pomeriggio a casa sua. Spesso sua mamma saliva le scale e apriva la porta, sorprendendoci incastrati e arrotolati per terra o sul letto, coi volti in fiamme e i corpi rigidi: beh, erano gli anni del wrestling, ed era semplice mentire sul gioco che fa impazzire i maschietti, giochiamo alla lotta!
La nostra scoperta sessuale progrediva; non erano più solo atti immaginari — che più avanti scoprirò avere scarse connessioni anatomiche con la realtà — perché a un certo punto ci misimo a guardare i porno dal computer di suo papà. Il mio sbalordimento faceva sorridere Luca, mai avrei immaginato che fosse così semplice accedere al sesso, vedere corpi di sconosciuti che scopano, e non per amore. E fin lì avevo anche omesso sul ragionamento delle cause che portano a fare sesso, oltre all’amore. Ora si aggiungeva alla lista: fare sesso per fare soldi. Avevo dieci anni.
Il periodo che seguì fu l’incrinatura del rapporto simbiotico con Luca. Successe un pomeriggio nelle due ore di educazione fisica. La nostra maestra si concentrava ogni mese su uno sport di squadra, cercando di rendere felici tutti i suoi alunni — peccato che gli sport di squadra mi hanno fatto sempre schifo, ciò che unicamente mi affascinava erano la competizione e la vittoria. Era il mese del basket, nel quale me la cavavo abbastanza. Venni a sapere da una mia compagna che Giuseppe, quello di cui ammiravo l’uccello, aveva chiesto a Luca se io fossi gay e che, qualora lo fossi stato, mi avrebbe tirato una pallonata in testa. La pallonata non ci fu, ma ci fu il momento in cui mi sentii estremamente tradito da quell’unica persona alla quale mi ero affidato completamente. Una pallonata sarebbe stata un soffio nell’orecchio a confronto del fatto che Luca avesse detto a tutti che ero gay. Di quel giorno, ricordo solo che uscii prima da scuola e che non tornai a casa per diverse ore che trascorsi a camminare senza meta. È un ricordo che, tuttora, mi fa soffrire, è stato il disvelamento di qualcosa che speravo potesse rimanere celato. E, in fondo, nella mia indole di ragazzino, non credevo di essere gay, non sapevo quanto profonda fosse la consapevolezza di dichiararsi omosessuali. Non finì qui la relazione con Luca, in realtà. Non gli dissi che ci ero rimasto male perché non volevo mostrarmi più fragile. Avevo deciso che non mi sarei più mostrato sensibile davanti a nessuno, neanche ai miei genitori. L’amicizia con Luca andrà avanti solo per abitudine e per comodità. Io non lo ascoltavo più nei suoi discorsi, e iniziai a canzonarlo sul suo aspetto fisico. Era giusto e necessario che mi vendicassi, a poco a poco. Se sia gay o meno non l’ho mai capito poiché la nostra amicizia è durata fino alla terza elementare, con evidenti strascichi di due persone che con poco impegno portano avanti una relazione già morta da tempo.
Io capii di essere omosessuale solo poco prima delle medie. Mi furono d’aiuto tutte le persone che me lo ricordavano, che mio schiaffavano in faccia un Ciao frocio!, così dal nulla. Stavo male quando sentivo quella parola: nessuno, ovviamente, mi aveva protetto dicendomi che non c’è nulla di male ad essere frocio, che erano loro le teste di cazzo e che io ero a posto. Sono sicuro che le insegnanti sentissero, ma non facevano nulla. Se non ricordo male una delle due insegnanti, alla consegna della pagella, aveva scritto nella sezione condotta che ero leggermente effeminato e che questa particolarità si sarebbe potuta correggere con uno sport; inutile dire che i miei genitori mi obbligavano già a fare tre sport. Quel frocio mi accompagnerà per molto tempo dopo le elementari; all’inizio pensai che fossero i miei vecchi compagni che si divertivano a spargere la voce e a farmi degli scherzi. Più avanti capii che era l’atteggiamento a portare molte persone ad insultarmi: a quell’età non sapevano nemmeno cosa volesse dire, era chiaramente l’emulazione di parole adulte pronunciate dai loro genitori infami.
Più volte sono stato preso di mira da più persone, atterrato in palestra, ho ricevuto qualche calcio in pancia e qualche pugno nell’occhio. E ricevetti più di una volta l’umiliazione peggiore: questi compagni che mostravano, al verme disteso e lacrimante che dovevo essere dal loro punto di vista, i loro cazzi ormai cresciuti, urlandomi Ti piacerebbe, frocio?, Dai, succhiamelo, checca!
Gli adulti sapevano, gli adulti sanno quasi sempre: non ho mai ricevuto altro che polvere da loro. E non ho mai chiesto aiuto a nessuno, perché ero giunto alla conclusione di essere io l’errore impossibile da correggere, loro erano solo dei piccoli bimbi innocui, io ero la vergogna e la strega. Ero il pappagallo senza compagno. Spesso mi chiesi se anche i miei genitori provavano la mia stessa vergogna; se anche loro fossero a conoscenza della disgrazia che avevano causato nel mettermi al mondo.
Ricordo quegli anni per il bambino che ero: usavo le parole per difendermi dalle accuse, spesso in maniera impropria. Alla festa di compleanno di mio fratello — più piccolo di me di due anni, anche lui mi chiamò frocio e fu per me la delusione più grande che potessi ricevere — una sua compagna di classe, Gloria, mentre andava sull’altalena, mi disse che ero effeminato, che glielo avevano riferito i genitori: le tirai un calcio sulla schiena, cadde in avanti e, infervorito, le risposi che era una cicciona del cazzo, che non sarebbe dovuta salire sull’altalena e che Gloria di Madagascar era proprio lei.
Ecco, questo fuoco che mi porto dentro, quella rabbia che con una piccola scintilla si innesta, non è più così giudicante. Ero diplomatico, ma anche molto politicamente scorretto. Non è una giustificazione dire che Gloria era davvero grassa e che avevo solo espresso ciò che era oggettivo a tutti, ma ai tempi lo credevo.
In un’altra occasione, con un’altra bambina, Oriana, che penso venisse dal Perù, avvenne lo stesso identico scenario: all’ennesimo Sei effeminato! le vomitai addosso di quanto fosse brutta, con quel suo viso sottile e lungo… ma solo dopo averla spinta giù dalla bicicletta.
Ero un bambino drammatico, avrei amato vedere rispondere quelle bambine invece di incurvarsi nelle spalle mettendo il broncio. Il broncio lo mettevo anch’io, in realtà, non salutavo più le mie vittime, le evitavo. Per me erano combattenti morti in battaglia. Anche uno smidollato come Luca aveva capito che ergersi contro la dittatura del pappagallo solitario sarebbe stata una sconfitta palese.
Lo rividi anni dopo, entrambi eravamo in stazione in attesa di prendere lo stesso treno. Era dimagrito spaventosamente. Non aveva più le guance rosse di Heidi; avevano lasciato il posto a un viso stanco e scavato. Anche io ero dimagrito, ma non per colpa della pubertà: era stata una battaglia contro il riflesso che vedevo nello specchio. Ci salutammo, velocemente. Lui mi sorrise, come se niente fosse accaduto. Come quelle persone che sono convinte che il tempo cura le ferite, che il tempo porta dimenticanza. Ma io non avevo dimenticato; sul treno, mi sedetti il più lontano possibile da quello che un tempo partecipò all’assassinio del mio amore incondizionato e di quella serenità che mi contraddistingueva.
L’amore che provavo nei miei confronti era puro, senza rancore. Alle elementari. Questo finché la ripetizione degli stessi scenari e situazioni mi fece comprendere che ero io il problema, che la mia dittatura significava solitudine. In più, il coraggio ingenuo che avevo da più piccolo va spegnendosi sempre più — da grande sperimenterò per qualche mese la paura di uscire di casa a causa di epiteti poco simpatici.
E, oggi, che grande lo sono, non è la scarsità di coraggio a spaventarmi. Il coraggio ritorna. L’amore per se stessi, no, quello non è ritornato. Non credo tornerà mai.
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Nicholas Guido nasce e cresce in un paese democristiano. Studia danza, la sua prima passione, che diventerà il suo primo lavoro. Attualmente, lavora nel settore terziario. Da grande vuole diventare un gatto.