top of page

Doppelgänger

T.TIVILLUS | Capitolo 1: Infanzia



Sono sempre stata attratta dagli angoli delle case, forse perché nessuno ci va mai, negli angoli. A noi esseri umani piace riempire il centro delle stanze, ci piace prendere tutto lo spazio, avere della superficie su cui allargare la nostra esistenza. Solo chi si nasconde va negli angoli. Solo i ragni, la polvere e le ombre. E lei, naturalmente.

Non avevo idea di chi fosse finché non l’ho pensata la prima volta. È bastato un pensiero che pendeva un po’ più in là del tracciato normale della coscienza. Una rotella che si è staccata dal meccanismo centrale ed è rotolata troppo in là, oltre il confine del burrone.

Il giorno in cui la incontrai ero in casa. Pioveva, una luce grigia smorta filtrava da dietro le tende ricamate. Si sentiva soltanto il fragore del temporale, il russare dei miei genitori e la mia voce. Parlavo piano, facendo finta che fossero le Barbie a scambiarsi le parole, a dirsi che erano contente di vedersi, che avevano proprio dei bei vestiti. Le facevo camminare sul tappeto in punta di piedi e le facevo sedere vicino a me per prendere un tè invisibile. Quando mi stancavo, mi guardavo intorno alla ricerca di un’altra storia da inventare. Fu così che adocchiai l’angolo. Quel freddo incrocio di pareti aveva attratto la mia attenzione. Poteva essere una tana, un nascondiglio remoto. Mi alzai e mi rannicchiai lì, sul pavimento freddo.

È stato divertente, per i primi minuti, vedere da quella strana prospettiva: i luoghi cambiano a seconda di come li guardi, non è importante che tu li conosca a menadito. Mi sono immaginata la mia vita vista da quella posizione. E ho sentito, improvvisamente, chiaramente, che qualcuno poteva vedere tutto il mio esistere, muovermi, giocare, parlare da sola, da lì. Da quel punto che io avevo sempre ritenuto vuoto, ma che forse non lo era mai stato davvero. Forse era solo abitato dall’invisibile.

La mia mente cadde all’indietro. Percepii i pensieri scivolare oltre la soglia del consentito – siamo noi a scegliere di guardare dove non dovremmo. E io guardai oltre, e sentii che lì dov’ero seduta, c’era qualcuno. Avvertii la sua presenza incorporea, il suo possibile respiro, perfino il suo contatto – aveva le dita fredde e mi accarezzava le spalle. Ero entrata nel suo territorio, per questo cercava di attrarmi lentamente verso di sé, dentro il proprio mondo di ombre. Potevo sentire la sua gioia perversa nell’essere finalmente riuscita a stabilire un contatto, il piacere di essersi fatta scoprire. Dopo tutto quel tempo in cui mi aveva osservato da lontano, dopo i numerosi tentativi che aveva fatto per chiamarmi a lei, adesso c’era riuscita e mi avvinghiava, mi tirava.

Quando mi allontanai dall’angolo – era stato semplice alzarsi e andarsene, anche se sentivo il cuore battere all’impazzata – mi resi conto che qualcosa in me era cambiato per sempre. Il contatto freddo con la creatura incorporea mi aveva infuso nella mente un veleno che si andava diffondendo velocemente. Nessun’anima rimane la stessa dopo aver incontrato la tenebra. Guardai la mia stanza e capii che tutta la mia esistenza era una messinscena.

È assurdo come da un pensiero si generi una catena senza fine di conseguenze. Partorire un’idea, per quanto malata o geniale, ha in sé i tratti dell’inevitabile. E adesso che sapevo dell’esistenza del mio Doppelgänger, l’universo mi si rivelò come un teatrino nelle mani di creature invisibili. Una finta. Un giocattolo vecchio che andava ricaricato. Ed ero certa che quando chiudevo gli occhi il mondo spariva, ritornando a far parte dell’incorporeo, per poi ricomporsi velocemente appena riaprivo le palpebre. Sempre un po’ diverso, sempre meno reale. Come una scenografia amatoriale messa di sbieco per la troppa fretta. Ogni tanto gli oggetti mi sembravano di due dimensioni, ogni tanto mi sembrava di intravedere persone che erano morte – almeno due volte ho visto la nonna che non c’era più. Tutto quanto era una menzogna, tutto era gestito dalle ombre che stavano negli angoli e che ridevano di noi. Guardandomi allo specchio, vedevo un riflesso leggermente diverso da quello che ricordavo – quella guancia, ieri, non era più piena? E il mio occhio destro, perché sembrava colare giorno per giorno verso la bocca? Credetti che era lei che mi faceva brutti scherzi, e per ingannarla cominciai a sorridere alla mia immagine, per dar prova di come fossi fiera di quello che vedevo. Spiavo dentro ai miei occhi per capire se quella che vedevo fossi io o fosse lei. Devo ammettere che a volte parlavo con il mio riflesso, allo specchio. Lo trattavo come se fosse un’amica. La sorella che non avevo – gli avevo addirittura dato un nome. Forse per ingraziarmi lei, per farle credere che mi sarebbe piaciuto incontrarla di nuovo, dirle che un’unione, magari, sarebbe stata divertente. Una volta mia madre mi sorprese mentre parlavo da sola allo specchio. Mi prese per una bambina particolarmente incline alla recitazione. Ero solo pazza.

Che lo fossi era quasi del tutto certo. Dico quasi perché in fin dei conti ero convinta di essere l’unica a sapere la verità sul mondo. Quel nocciolo di male racchiuso nelle forme apparenti, quella capacità di sbiadire di tutte le cose concrete. A volte mi sforzavo così tanto per far finta di credere alla vita che mi addormentavo a scuola, mi addormentavo sui libri mentre facevo i compiti. E quando mi svegliavo mi stupivo di come tutto fosse ancora quello di prima – un po’ diverso, forse, in alcuni punti. Appena appena stropicciato. Poi mi giravo sempre, come per sbaglio, verso l’angolo scuro della mia camera: cercavo di ritrovare l’invisibile.

Una sera, verso la fine della terza elementare, sono esplosa davanti a mia madre. Ho cominciato a piangere, a dire che lei non era veramente mia madre e mi sono impuntata per andare in quel preciso angolo, sbattendo i piedi nella mia ombra, sibilando “C’è troppo spazio qui” fra i singhiozzi. Era quel troppo vuoto che secondo me non poteva essere così vuoto, ma perché giuro che non lo era! Mi dispiace per mia madre, deve aver passato dei momenti difficili, probabilmente non ha mai detto nulla a mio padre riguardo alle mie strane uscite. Papà era più spaventato di lei, soprattutto quando mi venivano quegli spasmi incontrollabili alle braccia, alle gambe, alla faccia che mi si piegava in una smorfia. Allora chiedevo a mamma di massaggiarmi la schiena perché se c’erano le sue mani calde sulle mie spalle, lei non ci si poteva aggrappare.

Sapevo che non poteva continuare così per sempre, che io e lei ci stavamo progressivamente avvicinando l’una all’altra e che prima o poi saremmo arrivate allo scontro.

Accadde una sera d’inverno. Ero a casa di mia nonna. Poco prima di cena mi sono accorta di aver lasciato la scatola dei gessetti in cortile – avevo giocato a campana con un’altra bambina del palazzo durante il pomeriggio. Mia madre mi disse distrattamente di andarli a riprendere. “Vieni con me?” la pregai. Lei mi fece ragionare: in fondo non dovevo andare troppo lontano, ci avrei messo due minuti, e lei stava aiutando nonna a cucinare. Sentii la mia ombra sogghignare per quel mio errore. Aprii la porta delle scale e mi venne incontro l’odore di chiuso del palazzo antico, l’atmosfera carica di oscurità annidata lì da troppi anni. Cominciai a scendere le scale evitando le mattonelle rotte, senza toccare niente con le mani, quasi senza respirare. Sentivo una presenza inseguirmi passo passo, farsi sempre più vicina in quel luogo oscuro, uscire con me dal portone, seguirmi in cortile.

Fuori, l’aria era immobile. Dai rami cadeva un canto tristissimo di merli. Incrociai il gatto spelacchiato del cortile che mi soffiò contro – era diventato cattivo anche lui, da quando gli avevano avvelenato i cuccioli. L’atmosfera era così densa di solitudine che era difficile respirare, anche il più piccolo contatto con gli oggetti sembrava far male. Finalmente trovai la scatola coi gessi colorati, mi chinai velocemente a raccoglierli prima che si contaminassero con quell’aria densa. Mentre mi abbassavo, sentii la mia nuca andare a fuoco sotto l’influsso di uno sguardo troppo insistente. Potevo percepire addirittura un respiro alle mie spalle, la presenza di una mano a pochi centimetri dalla mia schiena – dovevo fare qualcosa di normale, fingere di godermi tutto, scacciare la paura per scacciare lei. Osservai con finta noncuranza il perimetro della campana che avevo disegnato, sollevai un piede e feci dei salti nei riquadri, cercando di mantenere l’equilibrio. Le mie scarpe si illuminavano di lucine azzurre a ogni passo. Mi sembrò che la recita stesse funzionando, almeno finché non sentii il rumore di un piede che calpestava una mattonella rotta. Mi fermai e mi voltai di scatto.

Lei era lì. Il grido che sentii nascermi in gola mi morì dentro. Era proprio lì, col piede a mezz’aria, a un passo da me. Aveva la mia stessa faccia pallida, il caschetto marrone spettinato dal vento freddo, il naso arrossato. Aveva persino la mia stessa giacca viola, lo stesso fiatone. Quando si rese conto che la stavo fissando raddrizzò la schiena e cominciò a guardarsi intorno, come incerta sul da farsi. Ero paralizzata dal terrore. Aspettavo il momento in cui avrebbe spalancato le fauci e mi si sarebbe gettata addosso, il momento in cui avrebbe infuso tutto il suo male in me. Le ombre del cortile erano tutte concentrate su di lei, la mia parte bestiale che abbozzava un sorrisetto complice. In quegli occhi senza fondo, uguali ai miei, sembrò brillare un lampo di malizia. “Cosa credevi”, sembrava dire, “che ci fosse una parte assoluta di te? Mediocre nel bene, sei mediocre anche nel male”. Mi avvicinai a quel mio doppio, come quando mi avvicinavo al mio riflesso nello specchio. Lei rimase ferma con un’espressione spavalda in volto. Realizzai. Era come me, quindi anche lei aveva paura.

Fui costretta ad allungarle la mano per farle capire che non volevo distruggerla. Esitò, non le piaceva la mia luce, ma era meno abbagliante di quanto avesse immaginato. Le nostre mani si incastrarono perfettamente. E mentre le sue dita aderivano alle mie, capii che la stessa sorpresa la stava provando anche lei. Era da tanto che mi inseguiva, convinta di dovermi eliminare, temendo che il giorno in cui mi fossi girata l’avrei divorata. Sentii la sua paura nello scoprire il mondo materiale, nel capire che le anime sono solo una finta, che il male non è assoluto. Sentivo il suo amore e il mio odio. Sentivo quanto fosse sbagliato quell’incontro, quel lasciarsi sorprendere. Ci guardammo entrambe intorno, per accertarci che il mondo non si sgretolasse, che la messinscena non finisse, perché due doppi si erano scoperti.

“Facciamo finta...” le dissi, sottovoce.

“...atnif omaiccaF” ripetè lei, sospesa. Lei, ipocrita e vigliacca come me.

“...Di niente.”

“etnein iD...”

Quando la sua mano lasciò la mia, sentii che le ombre tornavano a nascondersi negli angoli bui, impaurite dal mondo concreto della luce. Mentre il sole tramontava lentamente, lasciando loro un respiro di sollievo. Anche lei sospirò mentre tornava nella mia ombra e la sua forma aderiva forse più perfettamente alle mie pieghe. Io stessa la accoglievo in maniera meno aggressiva, con più compassione. Solo chi si crede puro ha paura della corruzione. E io ero piccola, sì, ma non ero pura. Alzai un piede e terminai le caselle della campana. Sentii il rumore di un piede che saltava su una mattonella rotta, dietro di me. Ma questa volta, non mi voltai.









Eugenia Bardanzellu (1996) è laureata in filologia alla Sapienza e ha ottenuto un master in scrittura creativa all'Accademia Molly Bloom. Professoressa d’italiano, le capita di recitare e scrivere cose. Da grande vuole fare l’astronauta.

bottom of page