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Ottimo meno

T.Tivillus | Capitolo I: Infanzia



Oggi ho venticinque anni e scrivo. Frequento una scuola di sceneggiatura, ho passato una dura selezione per essere qui, per guardare i film alle nove di mattina e tentare di tradurre le idee confuse di un aspirante regista in qualcosa di concreto. Scrivo. Scrivo bene, scrivo male. Dipende dalle ore di sonno, se ho bevuto troppo caffè, se sono felice. Scrivere è diventata una cosa meccanica, un dovere quasi, un imporsi alla scrivania. Ora scrivo, ora scrivo, ora scrivo. 

Le cose che devo scrivere stanno in un elenco sul cellulare. Ho comprato un’agenda, Moleskine, venti euro alla Feltrinelli. Ma alla fine l’ho lasciata intonsa, sta sulla mensola del corridoio, per le note ormai uso soltanto il cellulare.

Scrivo per gli altri, scrivo per gli esercizi, scrivo ed è un lavoro. Il più delle volte non mi sento brava abbastanza. Ne parlo con una collega e mi dice che è la sindrome dell'impostore. Io non ci credo. Secondo me, se non ti senti bravo abbastanza è perché non lo sei.



Lunedì volevo mollare tutto. Avevo scritto fino alle due e ventidue di notte, alle due e ventitré avevo premuto il tasto destro sul documento e scelto cancella. Il giorno dopo avrei dovuto leggere davanti a tutti. Ho cancellato e sono andata a dormire, non ho messo la sveglia, ho staccato il cellulare. Mi sono svegliata comunque presto. Il neon del mio orologio sul comodino segnava le sei e trentadue. Quando mi sono svegliata sono uscita. Sono andata a correre a Villa Borghese, ho aspettato che le gambe non reggessero più, che il fiato si consumasse. Dieci chilometri. Poi sono tornata a casa, mi sono fatta una doccia, mi sono messa una tuta comoda. Ero ancora troppo vigile, troppo lucida. Nove e trenta. Era l’orario della mia presentazione, non avevo avvisato. Ho preso in mano il cellulare ma non lo ho acceso. Mi sono seduta a terra, la schiena contro la testiera del letto.



Da bambina ero brava nei temi. Al liceo non avevo rivali, ma alle medie c’era una ragazzina che era brava quanto me. Era la mia vicina di banco. Si chiamava Clara, aveva i capelli biondi, sua madre glieli raccoglieva in una lunga  treccia ordinata. 

Ricordo un tema, verso la fine del primo anno. Io avevo preso ottimo, Clara ottimo meno e si era messa a piangere. Succedeva sempre così, io prendevo ottimo e lei ottimo meno. Quella volta, però, lei aveva scritto un tema sulla morte della nonna. Io invece, me lo ricordo perfettamente, su un tizio che non aveva l'accendino per le sigarette.

La nonna aspettava Clara tutti i giorni fuori da scuola. Le faceva le crêpes con la Nutella per merenda e la lasciava vedere la televisione per tutto il tempo che desiderava. Aveva una casa con tanti libri, tanti specchi, tante piante e tanti fiori. Un paio di volte c’ero andata pure io, per fare delle ricerche. Venivamo sempre messe in coppia insieme in quei lavori di gruppo, io e Clara, anche se non lo avevamo mai chiesto. Sua nonna le diceva: “Invita tutti gli amici che vuoi”. Ma la mia vicina di banco, come me, non aveva tanti amici. Alle recite di fine anno la nonna si sedeva sempre in prima fila e quando ci giravamo verso di lei ci faceva l’occhiolino.

Per scrivere il tema Clara aveva impiegato le due ore disponibili più tutto l’intervallo. Nelle ultime righe aveva scritto a memoria le ultime righe della poesia sul melograno di Carducci. Quando si era alzata per consegnare, mi aveva detto: “Questa volta vinco io”.

Quando la prof aveva riportato i temi corretti, Clara aveva fissato i fogli con le colonne di calligrafia ordinata e perfetta per qualche istante. Poi era andata alla cattedra e aveva bisbigliato qualcosa alla prof. Le rispose che come contenuto il tema meritava sicuramente dieci, ma che la forma poteva ancora migliorare e lei da professoressa doveva valutare oggettivamente. “Continua così”, le aveva detto infine.

Clara era tornata al banco con gli occhi bassi e la mano stretta a pugno sui fogli di protocollo. Io le avevo detto: "Attenta che stropicci le pagine". Mi ignorò. Quando la campanella era suonata e la classe aveva iniziato a svuotarsi, mi accorsi che stava piangendo. Piangeva in silenzio, dai nostri banchi in ultima fila, con lo sguardo basso, mentre sistemava i libri in ordine nella cartella. 

Lei piangeva e io annegavo nei miei sensi di colpa, senza il coraggio di dire niente perché tutte le parole mi sembravano ipocrite. E allora pensai freneticamente a cosa fare, e alla fine mi risolsi a parlare con la prof, perché mi pareva chiaro che il suo tema era migliore del mio, che io un tema sulla morte della nonna non avrei mai saputo scriverlo neanche in un milione di anni e nemmeno con ottocento nonne morte (si, ho fatto il calcolo). E già mi preparavo il discorso nella mia testa, e già mi sentivo giusta e buona. 

Mentre tutti si riversavano fuori da scuola, io percorsi i corridoi all'incontrario verso l’aula professori, con le mani che sudavano e il cuore che batteva veloce. All'ultimo, mi mancò il fiato, borbottai un no no niente e sgusciai via veloce per i corridoi. Io, le buone intenzioni e le mie mani sudate. 

E così continuai a collezionare ottimi e la mia amica ottimi meno. Io scrivevo storie di persone intelligenti che facevano cose stupide e lei scriveva di paure, desideri e nostalgia, e io pensavo che i suoi temi avessero qualcosa che i miei non avevano. Continuavo a non dire nulla, né a lei, né alla professoressa, e la mia amica probabilmente mi odiava ma non poteva farci niente se non sforzarsi di scrivere meglio, la prossima volta.



Le avrei voluto dire che era una cosa di poco conto, che è come quando un bambino di prima elementare sa già leggere e si crede invincibile ma poi gli altri recuperano. I suoi ottimi meno sarebbero diventati dieci al liceo e trenta e lode all'università. Io chissà. Che poi era assurdo che una persona tutta logica come me fosse brava a scrivere, che scrivere è questione di sfumature e io vedo tutto in bianco e nero. Doveva essere una cosa dei tredici anni, una delle cose dei tredici anni che poi finiscono e non hanno più importanza. Però intanto la mia amica piangeva e mi odiava e a me, ancora una volta, appena sollevavo la penna dalla carta, mancavano le parole.

Però alla fine ho vinto. Ho vinto lo scettro, la penna, il diritto di scrivere. Liceo classico, laurea in lettere, scuola di scrittura. Clara ha avuto un bambino, ho visto le foto su Instagram, le ho lasciato un mi piace. Quando pubblica una storia del bimbo gli nasconde il volto con una stellina. Vorrei vedere quel viso, sedermi nel salotto di lei, parlare davanti a un tè caldo. Chiacchierare sottovoce per non svegliare il bimbo che dorme di là. Gli porterei un libretto illustrato, io regalo sempre e solo libri, anche ai bambini di otto mesi. 



Sono stanca, il cuore mi batte lento, dormo poco perché scrivo di notte, davanti alla luce pallida del pc. Forse solo Clara potrebbe capire. Così contemplo il cellulare, lo schermo nero. Il bordo del letto preme sulla schiena ma non mi sposto. Ho il numero salvato in rubrica.

Il tempo scorre, il parquet da scomodo sta diventando morbido. Quando mi sveglio sono le cinque e sedici di pomeriggio. Sbatto le palpebre. Il buio da fuori sembra sospeso, quasi mi calma. Mi tiro su, quasi barcollo. Mi sento ubriaca, sarà solo la stanchezza. Siedo alla scrivania, scrivo. Apro un nuovo file sul pc. Scrivo la storia di un ragazzo che diventa invisibile. L’idea non è mia, è del regista. Mi ha riempito di istruzioni e richieste, continuava a ripetere “filosofico”, “astratto”, “visivo”.

Io scrivo. Il mio immaginario, la mia estetica, io. Le sue idee, ma io. Alle ventidue in punto è completa: dieci pagine di sceneggiatura, più un pitch e il soggetto. Chiudo il pc, abbasso lo schermo. Il ragazzo del racconto diventa invisibile perché gli altri non lo riescono più a capire. Preparo lo zaino, mangio qualcosa, mi lavo i denti, mi sdraio sul letto, accendo il cellulare, attendo mentre lo schermo si illumina con il cuore che batte, ci sono messaggi e chiamate perse: nemmeno le guardo, metto la sveglia. Domani. Quello che devo fare. Io ho vinto, io scrivo. 



Clara, come stai? Come si chiama tuo figlio? A volte mi manchi, Clara, sai? Mi dispiace sia andata così. Non so perché sei stata tu, e non io, la bambina degli ottimi meno.







Laura Iannello studia sceneggiatura al Centro Sperimentale del Cinema, a Roma. Ha una laurea in Studi Internazionali e ha lavorato al Ministero degli Esteri, ma alla fine la passione per la scrittura ha vinto su quella per la politica. Da grande vuole fare la pianista.

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