T.TIVILLUS | Capitolo 1: Infanzia
Ho l’impressione che certi ricordi non scompaiano mai del tutto dalla mente, che ci sia un filo dalle dimensioni impercettibili che tiene legata ogni fibra del cervello a dettagli anche irrilevanti del nostro passato.
Nel più antico di essi sono disteso supino in una culla e provo un tremendo disgusto mentre ingoio del latte caldo. Mi chiedevano cosa avessi intenzione di diventare; sottovoce mi domandavano: «quindi che vuoi fare?», «il papa o il pilota». Così stavano tutti zitti.
Poche settimane fa hanno dato fuoco ad una statua della Madonna, la stessa che ogni estate della mia infanzia veniva portata in processione nei complessi residenziali di una delle frazioni della mia città. Una frazione antica, dei tempi dei longobardi. Nel cortile dove vive mia nonna e dove ho trascorso le estati più belle della mia vita, quella statua di legno ci è entrata un’infinità di volte, ci restava intere giornate. Mia nonna vive al quarto piano di un grosso palazzo, il suo balcone si affaccia a un parco e ad altri quattro palazzine identiche: un luogo dal nome buffo, parco Porcelli, che nella mente e nelle parole riecheggia con un certo misticismo. Lo spazio a disposizione per permetterci di giocare e crescere allegri era ampio, ma non c’era niente di vagamente poetico in quello che, almeno adesso nelle immagini più o meno nitide delle mie memorie, era un recinto di filo spinato per bambini. Non c’era terreno su cui far crescere erba ma una distesa di asfalto crepato. Rari erano cani e gatti; c’erano soltanto grossi insetti neri e piccioni fuligginosi. Siamo cresciuti in una città del meridione, vicino Napoli, anche se mancava qualcosa che potesse suggerirlo, a parte i biascicati termini volgari e dialettali che (purtroppo) uscivano dalle nostre bocche immature. In realtà non sapevamo cosa ci fosse realmente al di là del cancello che ci separava dai pericoli della strada. Non sapevamo cosa ci fosse di diverso tra il sud e il nord dell’Italia o quanto fosse distante Napoli. Di Napoli sapevo solo che ci vivevano due delle quattro sorelle di papà: quella buona che si chiama come mia sorella e quella con il matrimonio disastrato che si chiama come una cantante famosa. Per il resto, il mondo era casa mia e quella di mia nonna, più la strada che intercorreva tra le due.
Ho tanti ricordi cristallizzati tra la polvere e le pietre di quell’idillio infantile, ma ce n’è uno in particolare che mi incuriosisce tuttora. Era una delle solite mattine d’estate, mattine luminose. I compiti delle vacanze erano stati appositamente completati, mancava ancora solo qualche ora prima che nonna mi chiamasse, urlando dal balcone, per avvertirmi che era pronto il pranzo.
Giocavo a calcio quando vidi che un pipistrello strisciava a pochi metri da me, su di un marciapiede. In effetti non era difficile accorgersi delle difformità in un luogo immutato dai tempi della nonna. Ho chiara in mente l’immagine di quel pipistrello, come anche la sensazione del mio dito indice sul suo dorso glabro. Ogni tanto l’universo si divertiva a plasmare mostri nelle soffitte dei quattro palazzi, pronti a essere indagati con avidità. Mio padre mi ha raccontato dell’atrocità a cui spesso assisteva durante la sua infanzia a Napoli: felini abbandonati in fin di vita dopo ore di tortura. Erano tempi troppo antecedenti alla mia nascita, un tipo di crudeltà che nel bosco delle mie fantasie non si era mai insidiata.
A essere onesti, spesso la nostra curiosità anatomica ci portava a seviziare insidiosi insetti volanti e creature grottesche, ma quel pipistrello che non sapeva volare, forse perché prematuro, sopravvisse, almeno per le prime cinque o sei ore dal suo ritrovamento. Custodito con cura in una vecchia scatola di scarpe, fu il protagonista della nostra osservazione attenta e (parzialmente) consapevole. A opera del risveglio di una sopita chiaroveggenza trasmessami dalle mie antenate, avevo l’impressione che, in qualche fessura nell’asfalto o foro per lo scolo delle acque, ce ne fosse un altro; un fratello o una sorella perduti, un genitore, un amante. E lo trovai, lo trovai davvero.
Ricordo il buco nero in cui infilai il braccio. Ricordo l’incredulità, data la consistente lontananza che lo separava dal primo orfano. Ricordo il suo corpo lanoso e gli occhi neri. Ricordo il signore che ci scoprì tormentare quelle creature della notte prendere la scatola di scarpe e lanciarla oltre il recinto del parco, nel cimitero dei nostri palloni arancioni.
Quando mi torna in mente la storia dei due pipistrelli diversi, mi aspetto che una remota zona del mio cervello, quella predisposta al calcolo matematico e delle probabilità, mi riveli l’equazione che possa spiegarmi la ragionevolezza di quell’evento. Domande retoriche. Nessuno degli altri bambini cresciuti lì ricorda quel giorno. Magari era un miracolo, uno di quelli riportati nella Bibbia dorata gelosamente conservata da mia nonna. Forse era soltanto a causa delle stelle che si erano accordate per mettersi in fila indiana, schiacciando e rimodellando la realtà.
C’è qualcosa che si muove nella testa dei bambini: una forma di arcaica percezione; sofisticati sensi di prossimità; la divinazione; giocattoli vecchi. Ogni tanto questa matassa guizza fuori dalle orecchie e unisce i punti da sotto, da sopra, da fuori e tutto intorno. E fui io, io con la mia elettricità puerile, a sintonizzare ogni parte di me al piano ontologico di cui facevo parte, appiccicando come figurine i più intimi desideri a ogni pietra, radice, bicicletta o marmitta che mi circondava. Porto i segni di quelle magie remote e selvagge nelle cicatrici che impreziosiscono le mie ginocchia. Sono abilità che tramontano soltanto quando i demoni del male del mondo si inerpicano con fluidità nella vita di ogni essere umano: la guerra, i soldi, la camorra, il diavolo.
Le mie gambe non corrono più veloci come il vento perché sono pesante. Nonno non mi prende più in braccio, perché è morto e perché sono troppo pesante. A volte mi sembra di ritrovare quelle profetiche vibrazioni quando assaporo un fico d’india o ascolto mia nonna mentre prega e strofina i grani del rosario. Quando faccio finta di essere procace. Quando affronto la nevrastenia di mia madre. Sono il monito di una storia solo mia e di cui non si può comprovare l’attendibilità perché la linea tra sogno e realtà è già oggi assai impura, corrotta. Perciò quando ho saputo che una vecchia strega aveva dato fuoco alla statua della Madonna di legno, ho pensato che un ulteriore brandello di quel bosco delle mie fantasie fosse stato ricondotto oltre la soglia delle umane comprensibilità. Adesso che in quel cortile c’è stato un ricambio generazionale, ora che nessun altro bambino potrà giurare di aver visto quella Madonna e suo Figlio muovere gli occhi, ora che ogni cellula putrida della mia pelle scorticata è stata disintegrata, cerco le tracce di quei miracoli sulle pareti delle mie palpebre.
Continui a chiedermi cosa voglio diventare. Mi dici: «balla veloce!», «gira più forte!» E io ballo e giro e i piedi si accartocciano e le ossa si rompono e il tempo passa e nessuno mi tiene. Quando la musica finisce e le sedie sono tutte occupate, dov’è il posto mio? Sto cercando le chiavi di casa e il posto mio ma tu non mi credi mai. Quando dico che le sirene esistono e che la Luna piange l’assenza del Sole, perché non mi credi più?
Chiedimelo ancora. Voglio essere la destra, la sinistra, le unghie nere di terra, le bugie e la conflagrazione; le gemme della melagrana, le spine, le bombe.
Voglio essere il papa o il pilota.

Giulio Montanini (1997) nasce e cresce a Cava De' Tirreni (SA). È laureato in Storia dell'arte all'Università degli Studi di Salerno. Da grande vuole fare l'archeologo.