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Cose da buttare

T.TIVILLUS | Capitolo 1: Infanzia




«Eccolo», dice la mamma. «Contento?»

Solleva il pupazzetto con due dita, tenendolo solo per una zampa. È messo male, impolverato; è l’aspetto che gli si addice, per essere rimasto dietro al letto per tutto questo tempo. È un animale dalle forme impossibili da riconoscere, potrebbe essere un mammifero qualunque o un mix di più creature assieme. Cane, gatto, coniglio.

Giorgio lo prende in mano e lo accarezza brevemente prima di ricordarsi che la mamma ha gli occhi puntati su di lui, dunque lo stringe con forza e le chiede se si può lavare.

«Direi che si può anche buttare» risponde lei, e Giorgio non può fare altro che alzare le spalle, annuire, restituirglielo. Non vedeva il pupazzo da tre anni.

Quando si era accorto di averlo perso, lo avevano cercato per un pomeriggio intero prima di decretare che poteva solamente essere finito dietro al letto, un’impalcatura mostruosa con cassoni, cassetti, vani e antri magici che non può essere di certo smontata con facilità; il compromesso era che lo avrebbero recuperato durante un eventuale trasloco, e ora eccolo qui, sporco, emaciato, triste.

Perché buttarlo?


***


«Eccolo», dice il papà. «Contento?»

È il Nintendo DS che aveva chiesto per il compleanno e Giorgio sa che dovrebbe essere contento di riceverlo. Ma il compleanno è passato da un mese, tutti son stati presi dal trasloco e il regalo è accompagnato da un bel nulla. Non un biglietto d’auguri, nemmeno una carezza, un sorriso, solo papà che sbatte la confezione nuda sul tavolo della cucina mentre mamma è a letto.

Giorgio apre la scatola aiutandosi con delle grosse forbici per liberarla dalle parti adesive. Suo padre invece spalanca la finestra e accende una sigaretta: il lavoro è compiuto e non sono più necessarie le parole.

Da lì in poi, tutto accade con ordine. Giorgio mette in carica la console accanto al microonde e butta via la scatola; non chiede perché non ci sia un gioco, o quando arriverà. Non mostra entusiasmo, o comunque non più del dovuto. Non dice nemmeno grazie, perché il momento della sigaretta per papà è sacro; significa solo che di lì in poi tutto è accessorio.

Domani, Giorgio prenderà il Nintendo DS carico e fingerà di usarlo. Studierà ogni punto dello schermo e ci vedrà dentro qualsiasi cosa, tutti i giochi che vuole. Disegnerà simboli magici sullo schermo inferiore, cominciando a consumarlo prima del dovuto.

Ma non ora. Giorgio esce dalla cucina lasciandosi papà alle spalle e si dirige verso la sua stanza attraversando il corridoio. Alla sua sinistra intravede la camera matrimoniale. Mamma è stesa sul letto a pancia in su, dorme prima che sia l’ora di dormire. Giorgio un po’ la capisce; il tempo rimane fermo mentre si aspetta.


***


Poi però le cose cambiano, come non si sa. Giorgio sa solo che da qualche tempo non tutto ha più lo stesso sapore. La mamma gli ha detto che papà comprerà un gioco soltanto una volta sistematisi nella nuova casa, ma per qualche motivo si rifiuta di dargli risposte più concrete di così. Non c’è una data per il trasferimento; Giorgio ha la netta sensazione che sarebbe dovuto avvenire già tanto tempo fa e che per qualche motivo mamma e papà abbiano continuato a rimandare. Dunque, ora che il letto è completamente smontato, Giorgio passa il tempo libero sopra al materasso posato direttamente sul pavimento. Tiene il Nintendo DS chiuso accanto a sé e lì vicino il pupazzo da poco ritrovato.

Perché buttarlo?

Aveva provato a convincere la mamma a tenerlo, le aveva detto che non poteva buttarlo via perché si trattava di un ricordo. Come gli è venuto in mente? Ancora oggi non ne ha idea, ma è contento di aver usato quella parola, perché all’improvviso la mamma si era rabbonita, diventando quasi un’altra persona; aveva preso il giocattolo e lo aveva messo in lavatrice con detergente e ammorbidente. L’aveva perfino asciugato col phon. «Pulito e soffice come una volta».

Oggi, come ogni giorno, il ticchettio dell’orologio in corridoio riecheggia per tutto il primo piano. Mamma è nella sua stanza, dove passa la maggior parte del suo tempo, anche se come ogni altra stanza anche quella è assediata da scatole, scatoline e scatoloni. Dentro c’è un po’ tutto quello che si porteranno dietro nella nuova casa in città, mentre tutto ciò che c’era da dare via è già stato fatto sparire. I vecchi maglioni di papà e i suoi sci, una macchina fotografica, persino i libri. La città è grande, ma nella nuova casa non ci sarà molto spazio. No, non casa, un appartamento, così lo chiamano tutti, e Giorgio ha imparato presto che un appartamento è inferiore a una casa. Gliel’ha detto un suo compagno di classe, ma in realtà lo ha capito anche da solo, e ora che si ritrova nella sua stanza vuota, non può fare altro che chiedersi per quale motivo agli adulti piaccia scambiare delle cose buone con delle cose meno buone, e comportarsi come se fosse una scelta assolutamente necessaria.

Tra le cose già vendute, regalate o buttate via c’erano anche altri giocattoli, alcuni molto vecchi e dunque di scarso interesse, mentre altri ancora belli. Trovare il pupazzo dietro al letto è stata una fortuna, perché Giorgio non ha più molte altre cose con cui giocare, se non si considera una console spenta e senza schedine. Eppure il pupazzo rimane lì, fermo accanto al DS, mentre Giorgio pensa e pensa e pensa. La mamma rimane nel letto a dormire e pure lui fa qualcosa di simile. Non si sdraia, ma rimane seduto immobile sul materasso finché il sole non tramonta, finché, per l’ennesima volta, qualcuno risponde Non oggi alla domanda Quando ci trasferiamo?


***


Un giorno i raggi di luce illuminano le stanze sempre più vuote del primo piano e Giorgio si sente come riempito da una sensazione gloriosa. Con il pupazzo in mano e il Nintendo DS nella tasca, sgattaiola di stanza in stanza e per la prima volta pensa di dover imprimere nella memoria quel preciso momento. Vuole assicurarsi di ricordare la qualità esatta della luce, afferrarla con la mano e non lasciarla mai andare, perché nonostante i Non oggi dei genitori, non può sapere con certezza quando sua madre o suo padre gli regaleranno un Domani, dunque è meglio fare scorta di quei colori e di tutto il resto. Gli angoli, la polvere sul pavimento, le zigrinature del legno, i muri ruvidi.

In quello che fino a poco tempo fa era lo studio di papà sono rimasti un tavolo, uno scatolone e papà stesso, che se ne sta seduto sul pavimento dando le spalle alla porta.

Quando Giorgio entra, lui si gira allarmato, ma pare rilassarsi non appena nota il figlio.

«Ancora con quel pupazzo? Dai, vieni qui» dice tamburellando le dita sul pavimento accanto a sé. Giorgio ubbidisce. Si ritrovano così seduti davanti a un grande scatolone. Da esso, papà tira fuori una valigetta per poi attaccarla alla corrente tramite un cavo.

«Ma ci vieni anche tu in città, vero?» Chiede Giorgio.

Papà sembra scioccato, addirittura disgustato, poi però si calma, accarezza Giorgio sulla testa e gli risponde: «Certo che ci vengo. Ci andiamo tutti e tre assieme.»

Apre la valigetta, che al suo interno ha uno strano piatto con una stecca di plastica. Papà estrae dallo stesso scatolone una custodia quadrata da cui fa uscire un grosso disco nero, che posa sul piatto. Infine vi appoggia sopra la stecca e il disco comincia a girare. Giorgio sussulta, ma è quando fa rumore che ha inizio la magia: è musica, e a Giorgio viene subito voglia di muoversi. Si trattiene.

«Questo è un po’ come uno stereo, ma non si usa più come un tempo. Ce l’hanno in pochi» dice papà mentre delle voci riempiono la stanza di una canzone senza parole. «E questo è jazz.»

«Possiamo portarlo in città?»

«No, Giorgio» risponde papà. «Certe cose vanno lasciate indietro.»

La musica si impenna, sale, non in volume ma in intensità. C’è un pianoforte che si fa sempre più fitto, dei suoni come ciottoli che si susseguono l’un l’altro. Giorgio stringe il pupazzo, quel gatto/cane/coniglio impossibile da descrivere, perché sente che papà potrebbe portarglielo via da un momento all’altro.

«Le possiamo portare con noi. Non qui», dice papà e punta allo scatolone con un dito. «Ma qui.» Ora si sta indicando la testa. «Imparerai. Lascia qui il pupazzo, ormai hai altro con cui giocare. Ormai sei grande. A otto anni si è ometti, si deve essere un po’ responsabili.»

Ma che ne sa lui di cosa può voler dire, avere otto anni? Giorgio si alza di colpo, perdendo l’equilibrio e rischiando di capitombolare di nuovo giù, ma no; riesce a mettersi in piedi e con le lacrime che gli salgono su dalla gola dice: «Io mi porto dietro quello che voglio.»

Corre in camera sua, lancia il pupazzo contro il muro e tira fuori il Nintendo DS dalla tasca. Un giocattolo e la promessa di un gioco. Sente ancora la musica di papà, che non l’ha mai interrotta né ha abbassato il volume. Accompagnato da un crescendo di note, Giorgio scaraventa la console sul pavimento con una forza che non credeva di possedere. Le note non nascondono quel crack, che si unisce alla canzone come un ennesimo strumento. Infine, con le lacrime agli occhi, Giorgio riafferra il pupazzo e se lo porta al petto.

È così che annega in un singhiozzo continuo, uno sguazzare nella tristezza. Che cos’è? Si chiede. Quella sensazione che non ha mai provato prima d’ora, un’oscurità bagnata che rimane appiccicata alle guance e ai vestiti. Perché non se ne va? La canzone si ferma di colpo, e Giorgio non sa dire se abbia raggiunto la sua naturale conclusione o se papà abbia tolto il disco e chiuso la valigetta. Fissa il pupazzo, le sue fattezze misteriose, poi ne afferra la testa con una mano e il corpicino con l’altra, e tira.

Decide di imprimere anche questo momento nella memoria. Il pelo morbido, gli occhi che sembrano biglie, il pancino più chiaro e le orecchie che penzolano. Il sole che sta per tramontare, il silenzio che sostituisce quello che è stato un eccesso di suoni. Tira, tira, tira e non succede nulla, la testa non si stacca. Se solo non avesse già impacchettato le forbici, quelle grosse senza la punta arrotondata. Giorgio immagina di accoltellare l’animale, di recidere la testa con un colpo secco. Immagina di strappare tutto ciò che può con le mani, di urlare e scappare di casa.

Papà si fa vivo sull’uscio di camera sua, lo vede piangere ma non dice nulla. Quando fa così, quando lascia che i silenzi rimangano tali, Giorgio vorrebbe farsi del male ma non lo fa. Rimane nella stanza vuota, a immaginare di distruggere finalmente quel pupazzetto, di voltarsi verso il padre e dirgli: Eccolo. Contento?








M. T. Locatelli è nato in Brasile, cresciuto a Lecco e si è trasferito a Londra, dove edita, scrive e traduce. Da grande vuole fare l’esploratore.

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